Edvard Munch a Genova

Edvard Munch - Autoritratto
Edvard Munch – Autoritratto

Per i 150 anni della nascita di Munch si è mobilitato tutto il mondo dell’arte mondiale: Europa, Stati Uniti e Giappone festeggiano l’evento con più o meno ampie retrospettive seguendo a ruota la più ampia di tutte, quella di Oslo.

Anche l’Italia seguendo il trend di europafilia artistica che da anni porta avanti, si è mobilitata a Genova presentando, per la prima volta, e attraverso una notevole mostra, quel gigante della pittura nordica moderna, che è Eduard Munch, (1863-1944).

Trattandosi di una delle personalità artistiche più complesse di tutta l’arte, consiglio di varcare la soglia di Palazzo Ducale con lo spirito più sereno possibile e di gettare uno sguardo alla biografia del norvegese, per preparaci, con animo “rasserenato”, a scoprire l’anticipatore, dopo l’Impressionismo, di tutte le avanguardie storiche, un vero “pezzo da Novanta” dell’arte di tutti i tempi.

Edvard Munch - Agitazione
Edvard Munch – Agitazione

Una mostra degnissima, quella di Genova, sufficiente ad aprire la nostra conoscenza di un’artista difficilissimo per noi “solari mediterranei”, sbalorditi di fronte a quel repertorio di temi fondamentali, oltre che nell’Espressionismo, nella vita stessa. Temi che vanno dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi, dalla solitudine umana all’incombere della morte, dall’incertezza del futuro alla disumanizzazione di una società “sbandata”.

La mostra non vuole e non può essere esaustiva. Si sono dovuti superare tanti ostacoli e difficoltà a causa dei prestiti negati, (come sappiamo, i musei norvegesi sono impegnati con le loro mostre e tendono a non prestare più nulla dopo i quattro grandi furti dell’Urlo e della Madonna, fortunatamente tutti ritrovati). Gli organizzatori genovesi hanno potuto contare sulla generosità del collezionismo privato che ha garantito la riuscita dell’evento con un’ottantina di opere, alcune inedite anche se manca il best-seller, uno dei due pastelli de L’urlo, il dipinto venduto nel 2012 al prezzo più alto (120 milioni di dollari) in un’asta di opere d’arte. Il solo premio assicurativo avrebbe più che ingoiato il budget previsto.

Dentro la mostra

Le utilissime audio guide, offerte gratuitamente e opportunamente, ci introducono al periodo storico e culturale in cui visse e operò l’artista. Le tappe della sua vita-carriera si snodano nelle selezionate sale a tema e ci si può così concentrare sulle opere maggiori e interrogarsi sui significati delle minori. La vita dell’artista si snoda nel racconto e apprendiamo che Munch visse fino a 81 anni e lavorò, quasi ininterrottamente, per 60. Fu afflitto da turbe esistenziali, da gravi traumi psicologici (morte precoce della madre e dell’amatissima sorella portata via dalla tisi), dalla tara ereditaria del padre maniaco-depressivo e dalla malattia di un’altra sorella, anch’essa ricoverata per malattia mentale e, infine, della sua debolezza letale, l’alcolismo che, insieme all’incapacità di vivere una storia d’amore normale, lo portò ad una vera e propria negazione della vita.

Edvard Munch - Bagnanti
Edvard Munch – Bagnanti

Chiunque sarebbe stato sopraffatto da tutto questo, Munch no. Perchè?

Perchè Munch mise quel terribile “tutto”, nero su bianco sulla carta scritta (gli illuminanti Diari) e nei colori della sua opera artistica, a tutto tondo, dall’olio, al pastello, alla grafica, al collage.

Sono stati questi gli antidoti al mancato appuntamento con la Morte, vera “sorella in attesa” durante tutto il corso della sua vita.

Munch la sua terapia l’aveva trovata attraverso nell’arte, pur in tempi di trionfante psicoanalisi. Così i suoi scritti servono a decifrare la sua arte, nella più soggettiva espressione (a colori, a pastello, a inchiostro, a matita) delle sue molteplici risposte emozionali ad una ” vita che è già morte quando nasci”.

L’uomo-artista dai sentimenti oscuri, che è riuscito ad esorcizzare la profondità del suo mal di vivere dipingendo i suoi ricordi e ciò che le paure gli hanno mostrato della realtà, è, anche, colui che ha aperto gli occhi del mondo artistico a una nuova visione dell’arte, alla prima vera “avanguardia” della storia dell’arte moderna, capace di sconvolgere tutto il XX secolo.

Dunque, un anarchico dell’arte, dapprima in rotta di collisione con il naturalismo di matrice impressionista, poi con il simbolismo per giungere ad inventarsi una nuova forma di espressione artistica in rivolta contro tutto quell’apparato indigesto di un mondo di regole soffocanti e dolorose inculcatogli fin dall’infanzia.

E così che dobbiamo intendere, sala dopo sala, il suo autentico messaggio: ci vuole un “coraggio da leone” per vincere contro incomprensibili convenzioni imposte dal mondo, e lui vi accede passando da un accanimento programmatico sugli strati del colore, solcati fino all’inverosimile e debordanti dalla tela sulla cornice, in composizioni lasciate all’aperto, sotto la pioggia, sotto il sole e la neve per sperimentarne la risposta di fronte alla natura reale (quella che definiva la “cura da cavallo”) e, a seguire, fino al trasferimento di fotografie e fotogrammi di film muti all’interno dei suoi lavori grafici e dei dipinti. Un mix di inaudita modernità, quadri, collage e film sono compressi in un tutt’uno, accanto ai morituri supporti e alle tecniche di incisioni, sculture e fotografie, affratellati in un esplosivo miscuglio.

Un autentico innovatore che riesce solo attraverso la rottura più completa dei modelli precedenti, mutati in una nuova forma di arte-terapia, a salvare se stesso.

Siamo usciti, silenziosi, riflettendo stupefatti su come ha potuto riuscire Munch a passare dall’esplorazione all’esposizione visiva dei temi più oscuri del vivere, l’amore, la paura, la morte, la malinconia, l’ansia.

“La natura è l’opposto dell’arte. Un’opera d’arte proviene direttamente dall’interiorità dell’uomo. (…) La Natura è il mezzo, non il fine. Se è necessario raggiungere qualcosa cambiando la natura, bisogna farlo. (…) L’arte è il sangue del cuore umano”. Così Munch ha condensato il suo intenso e sensibilissimo credo. Miglior epitaffio forse non c’è.

Patrizia Caretto